Dove sono gli intellettuali, in questo Paese?

Forse l’ho anche già scritto, ma sono da sempre affascinato da Mario Capanna. Trovo su FB questa citazione da un suo libro e non posso fare a meno di riportarla.

Da:  L’Italia viva, viaggio nel paese dell’impegno e della speranza
M.Capanna  – Rizzoli 2000   – Cap.10

Dove sono gli intellettuali, in questo Paese?

Ovvero: di fronte a questioni decisive, come le biotecnologie, l’iniqua ripartizione delle risorse e le tante aberrazioni del potere, da noi e nel mondo, che cosa pensano gli intellettuali italiani?

Che cosa dicono? Che cosa fanno? Come si atteggiano e da quale parte stanno?

Qui le note si fanno davvero dolenti. Ma, prima di entrare nel merito, bisogna esaminare un punto preliminare, sul quale purtroppo (sarà un caso?) non ferve il dibattito: qual è il senso, oggi, della figura dell’intellettuale?

Anzitutto: la stessa parola "intellettuale¯ ha una storia. Da aggettivo si è trasformata in sostantivo solo poco più di un secolo fa.

L’atto di fondazione può essere fatto risalire al famoso "J’accuse!" di Emile Zola, pubblicato sul quotidiano "L’Aurore¯ il 14 gennaio 1898 in difesa di Alfred Dreyfus, ingiustamente condannato per spionaggio.

Il manifesto venne firmato da molti dei più illustri uomini di cultura francesi: oltre Zola, Marcel Proust, Anatole France, Claude Monet e altri.

Qualche giorno dopo Maurice Barrès, portavoce dello schieramento colpevolista, attaccò aspramente la presa di posizione, che richiedeva la revisione del processo, bollandola con sarcasmo, sul quotidiano "Le Journal", come "la protesta degli intellettuali".

Definizione azzeccata, perché la "protesta", a cavallo del caso Dreyfus, è rimasta a significare da allora l’impegno della "comunità pensante" a servizio della verità e contro le prevaricazioni dei potenti.

Ma: protestano, oggi, gli intellettuali italiani? Si oppongono? Indicano delle alternative? Fanno davvero uso dell’intelletto che, secondo la dottrina cattolica, è addirittura uno dei sette doni dello Spirito Santo?

"Intelletto", "intellettuale": derivano dal verbo latino "intellego" (o anche "intelligo"), che significa "venire a conoscere", "farsi un’idea", "riconoscere" e, perciò, "comprendere". Il termine è composto da "inter" ("fra", "tra", "in mezzo a") e "lego" (leggere).

L’intellettuale, dunque, è colui che è in grado di "leggere fra" i segni, di "leggere in mezzo" alla realtà. Capace, inoltre, di "intus-legere", "leggere dentro".

Non è un caso che "lego", oltre a "leggere", significhi anche "cogliere", "raccogliere", "scegliere" e persino "passare", "attraversare", "percorrere". E "lego" evoca anche il senso di "ligo": "legare", "congiungere", "unire", "riunire".

Perciò l’intellettuale – quello, beninteso, degno di questo nome – è colui che "legge fra" e "dentro" le cose (i fatti, le circostanze, gli avvenimenti), le "comprende" in profondità in quanto sa "attraversare" il loro senso, lo sa "cogliere", riuscendo a "congiungere" e "unire" fra loro i diversi significati di un molteplice.

Non è, dunque, il veggente, ma colui che, guardando, vede: "coglie". E, avendo lo sguardo allenato, è in grado di solito di vedere prima di altri.

Non lo ingannano le apparenze, perché non si ferma alla superficie, ma va a guardare sotto.

E’ come il cercatore di radici: sa che a indicargliele è la parte aerea della pianta, ma esse si trovano nel sottosuolo. E, per averle, deve – deve! – sporcarsi le mani.

Così dovrebbe essere ogni intellettuale che si rispetti (che rispetti se stesso e dunque meriti rispetto).

Lo spirito critico è la sua bussola, il pregiudizio il suo peggior nemico.

Certo, come ogni altra persona, anche l’intellettuale è figlio del suo tempo. E, come ogni altro, incide nell’evoluzione della società, cui appartiene, con l’inerzia o con l’attività, con onestà o disonestà, vedendo o facendo finta di non vedere quanto gli accade intorno, tacendo o esprimendo il suo giudizio.

E proprio qui sta il punto: poiché egli è – ed è ritenuto dai suoi simili – capace di "leggere fra", e "dentro", le cose, il suo parere è importante (non a caso viene spesso ricercato).

Il suo giudizio veritiero può aiutare, e varie volte non poco; il suo silenzio complice – di un’ingiustizia, di un sopruso, di un pericolo – o, peggio, la sua bugia possono recare grave danno.

Da questa stretta, l’intellettuale non può uscire. Per quanti sforzi faccia, "deve scegliere" circa l’uso del proprio intelletto. Fermo restando che anche il decidere di non usarlo è in ogni caso una scelta (in certi casi, a essere sinceri, è la migliore).

Intellettuali e potere: questa è, da sempre, la questione più spinosa per chi "legge dentro" le cose.

Da sempre: da quando gli intellettuali e il potere (nelle sue varie forme) sono esistiti.

Da sempre: anche quando gli intellettuali non si chiamavano così, ma ®filosofi¯. (Socrate è il caso paradigmatico, come Gesù in ambito religioso e, in quello scientifico, Galileo Galilei.)

Il potere non è neutro. Qualunque potere esercitato determina quasi sempre rapporti di subordinazione. Com’è, come non è, quasi sempre uno finisce sopra, un altro sotto.

Il potere è, per definizione, il piano più inclinato verso la prepotenza. E, come si sa, può arrivare a corrompere, ingannare e persino uccidere e scatenare guerre, per conservarsi o rafforzarsi.

L’intellettuale, questo, lo sa perfettamente. Perciò quello autentico non gli dà tregua, ne svela i meccanismi, ne denuncia le distorsioni e i soprusi, gli si oppone indicando un’alternativa.

Svelando e denunciando, aiuta gli altri a capire. E a vedere che il cuore pulsante della democrazia è la partecipazione, non la delega (di cui il potere si nutre distorcendola).

L’intellettuale opportunista, al contrario, trova mille modi per convivere con il potere, di cui quasi sempre diviene corifeo e battistrada. Nizan chiama costui "cane da guardia".

Sartre distingue fra "intellettuale" e "falso intellettuale" e indica questi come "il nemico più diretto" del primo.

Che l’intellettuale opportunista sia il contraltare del "vero intellettuale" è indubbio. Ma è fuorviante chiamarlo "falso intellettuale".

Egli, infatti, rimane sotto ogni profilo uno che usa il proprio intelletto, anche se lo impiega non per "leggere dentro", bensì per "leggere sopra", coprendo e giustificando l’esistente, anziché adoperarsi per cambiarlo.

E’ dunque più pertinente definirlo "inintellettuale": l’"in", prefisso negativo (e privativo), ne coglie e fissa il ruolo e la funzione. Glieli riconosce, dando così a ciascuno il suo.

L’"in"intellettuale, al contrario dell’intellettuale, non dice "sì" oppure "no". E’ uno specialista scientifico del "sì, però"…, oppure, per converso, del "no, tuttavia"…, oppure ancora del "è evidente, ma"….

Casi concreti? Infiniti. Esempi: quando uno che si definisce comunista scinde il proprio partito, ne fonda un altro, proclamando solennemente "mai i nostri voti confluiranno con quelli di Cossiga!", e il giorno dopo, zac, i due si mettono insieme per sostenere il governo; quando il capo di quel governo, anziché affrontare serenamente le urne, accetta di formarlo in quel modo e poi trasforma il nostro Paese in una specie di portaerei Nato per una guerra (poteva dire semplicemente: se la decisione non è presa dall’ONU, l’Italia non si muove – posizione per nulla radicale, ma banalmente socialdemocratica…); quindi viola la Costituzione dando soldi alle scuole private, e però ricorda con civetteria che nel Sessantotto lui tirò una bottiglia Molotov (ma i testimoni smentiscono), dandomi peraltro ragione, perché sin da allora sostenevo "guardiamoci dagli estremisti, domani ce li ritroveremo dalla parte opposta"; di che si tratta se non di casi eclatanti di "inintellettuali politici", che alla politica hanno tolto la sua ragion d’essere fondamentale, ovvero l’anima?

L’"in"intellettuale ama il galleggiamento più del sughero. Ciò che gli importa massimamente è mantenere la linea di superficie, la direzione di spostamento è trascurabile.

Egli ha, per il potere, un fiuto migliore di quello del furetto per i conigli selvatici.

Quanto a mutamento di posizioni, l’"in"intellettuale possiede capacità che fanno impallidire le traversate degli uccelli migratori.

L’"in"intellettuale credente, poi, dimentico del rapporto stretto fra intelletto e Spirito Santo, è capace di volteggi metafisici a volte superiori a quelli del suo omologo laico.

Sì che il papa farebbe bene a scrivere un’apposita enciclica, di cui, sommessamente, vorrei suggerire l’inizio: "Peccatum intellectus remotionis nulla venia dignum est et in infernum ducit" (Il peccato di rimozione dell’intelletto è imperdonabile e conduce all’inferno).
In generale, per dovere d’ufficio – e in particolare per giustificare il proprio camaleontismo -, l"’in"intellettuale è un fine e tenace assertore della "fine delle ideologie".
Tace, con assoluta accuratezza, che ne è rimasta in piedi una, la più potente e devastante: l’ideologia unipolare dell’Occidente che oggi avvolge e regola il mondo.

L’"in"intellettuale più accorto è quello che, perfettamente amalgamato con il potere, ne critica tuttavia le degenerazioni più macroscopiche (per esempio: la corruzione eccessiva, la giungla fiscale, fino ai ritardi degli aerei e dei treni eccetera), assecondando il senso comune, per cui è spesso popolare, ma sempre attentissimo a rimanere entro il perimetro delle compatibilità date.

Si crede – e agli sprovveduti addirittura appare "fuori dal coro". Ne è, in realtà, una voce essenziale, proprio perché lievemente dissonante. Una delle migliori canne dell’organo. Il "cane da guardia" più utile. E tra i più apprezzati.

L’"in"intellettuale è di solito un "artista" della parola, un vero giocoliere. Ne conosce e utilizza ogni sfumatura. Le parole sono, a seconda dei casi, la sua cortina fumogena protettiva, oppure la sua arma d’attacco.
Quando partecipa a un talk show televisivo (non importa quale sia l’argomento), l’"in" intellettuale, lo vedi, raggiunge l’acme orgiastico. Straripa. Dilaga.
Il professionista esperto non disdegna di creare una rissa – verbale o anche fisica, purché, beninteso, di fronte alle telecamere – affinché l’indomani i giornali parlino di lui.
Le studia tutte. Si appende persino, per così dire, al proprio ciuffo di capelli, curato apposta perché gli cada frequentemente sul viso, onde avere il pretesto, con un leggiadro tocco della mano, di rimandarlo indietro, procurandone una imminente ricaduta e così via a esaurimento di tic nervosi, che facciano passare in secondo piano la vuotezza di argomenti.
Oppure c’è quell’altro, che strabocca dalle proprie bretelle (uno di quelli, tanto per cambiare, che ieri mi scavalcava "a sinistra"), agita la sua gran mole sulla sedia, esibendo fiero le stimmate di destra contratte sulla via di Damasco nei dintorni di Arcore e fa di tutto, senza riuscirci, per non farti pensare a quale guaio succederebbe, a lui e a te, se ti arrischiassi a bucarlo con uno spillo.

Sebbene sembri contrario all’evidenza, l’"in"intellettuale televisivo – o comunque parlatore – non costituisce il caso peggiore. L’abisso, di regola, viene attinto dall’"in"intellettuale scrittore.
Sapendo, secondo l’antico adagio, che "scripta manent", egli fa di tutto per cautelarsi. Cerca in ogni modo di evitare che le parole, un giorno, gli siano ritorte contro.
Perciò, nei suoi scritti, dice e non dice, smussa, assottiglia, lima, sfrega, attenua, bilancia, attutisce, ottunde, affina, un colpo al cerchio e uno alla botte.

Non ha nemmeno il "coraggio" di Macrobio, lo scrittore tardo-latino che, definendo una volta per tutte la pusillanimità dell’"in"intellettuale, ha detto di sé: "Ego taceo, non est enim facile in eum scribere qui potest proscribere" (Io taccio, non è infatti facile scrivere contro colui che può mandare in esilio). Macrobio sceglie di tacere: codardo, ma a suo modo dignitoso. L’"in"intellettuale scrittore, essendo anche, il più delle volte, pagato profumatamente per scrivere, non può mettersi al riparo del silenzio.

Deve scrivere (anche per coltivare il proprio ruolo). Ma, non potendo tacere, vuole evitare di scrivere contro chi ha il potere di rivalersi, magari usando mezzi ancora più efficaci dell’esilio. Da qui l’acume nel frullare e frollare le parole sulla carta.

E allora hai il "grande scrittore" che sforna romanzi di successo, dipanando storie magari bellissime e avvincenti ma che hanno, con i problemi del mondo, lo stesso rapporto dei conigli con l’acqua da bere. Oppure hai il "grande storico" revisionista che, in centinaia di pagine, ti "dimostra" come i fascisti della repubblica di Salò e i partigiani, alla fin fine, perseguivano di fatto ideali non dissimili.

Oppure ancora: hai il "grande giornalista", firma prestigiosa, che ha fatto sul serio la Resistenza – e c’è da essergliene grati, anche perché non si è mai pentito (e personalmente gli sono grato pure per quel telegramma bellissimo che mi inviò a San Vittore nel 1969, la prima volta che andai orgogliosamente in galera in ragione delle mie idee e di quelle di milioni di donne e uomini) -, che stila articoli di prima pagina e cura non so quante rubriche, quasi ogni giorno stracciandosi le vesti contro le malefatte del capitalismo, e che però si guarda bene dal dire che quelle malefatte continueranno inesorabilmente fino a quando sarà il profitto, non gli esseri umani, a tenere il posto di comando, che è poi quanto pensava, all’incirca, quando combatteva in montagna da giovane.

L’"in"intellettuale giornalista (ovviamente con le debite eccezioni, che però confermano la regola) è un vero flagello.

Divenuta una rarità pressoché assoluta il giornalismo d’inchiesta, la televisione e i giornali – per non parlare di quel concentrato di aberrazione che sono i rotocalchi, compresi i settimanali di cosiddetta informazione – sono dominati dal "cazzeggio".

Parola forse inelegante, come del resto l’"in"intellettuale, ma pertinente. Sta per "superficialismo" brado, voluto e coltivato. Qualcosa che travalica la semplice "superficialità", divenendo una specie di filosofia del raggiro.

Come definire altrimenti quella tecnica, ormai giunta quasi alla perfezione, consistente nello sfornare, ogni giorno, una quantità enorme di "informazioni", tutte parcellizzate e scollegate, in modo tale che diminuisca la conoscenza di chi le riceve?

Ai vertici della Rai e di Mediaset sanno benissimo che, se venissero mandati in onda programmi culturali e di approfondimento seri (seri, non seriosi), fatti bene, gli indici di ascolto sarebbero elevati. Appunto: quindi ci si guarda bene dal farlo.

E allora giù… il video come lotteria continua, i balletti come il prezzemolo, il calcio a ogni piè sospinto, i talk show come sonnifero democratico. In breve: il superficialismo come maieutica per l’istupidimento di massa.

Se si considera che i principali consumi "culturali" degli italiani sono: guardare la televisione (98 per cento); leggere settimanali (87 per cento); mensili (74 per cento), si dovrà convenire che la crudezza dell’analisi corrisponde ai risultati.

Il grande Ryszard Kapuscinski, con un linguaggio più aulico ma non meno severo, sostiene le stesse cose quando afferma: "I media sono diventati strumenti di svago, ci esortano più a dimenticare il mondo che a conoscerlo". Sono un giocattolo "in mano ai ricchi". E i ricchi lo usano "per diventare ancora più ricchi".

Sono lo strumento di una civiltà inumana. Servono a "impedirci di sapere" che due terzi del Globo vivono in povertà estrema. E’ questa la vera ignoranza. Karl Popper scrisse che non è assenza di conoscenza, ma "rifiuto di conoscere". Esattamente il nostro caso (corsivi miei).

Esattamente. Ecco perché prendere in mano un libro e spegnere il televisore possono costituire l’inizio di una sana ribellione. Un libro (anche il peggiore) ti costringe a "parlarci": il telecomando ti dà solo, quasi sempre, la fittizia libertà di scegliere fra una stupidaggine e una scemenza.

"Un’idiozia conquistata a fatica": così Giorgio Gaber ha intitolato un suo recente spettacolo, uno dei più profondi. Ben detto. Sbarazziamocene.

L’intellettuale è l’incubo dell’"in"intellettuale. Questi è costretto in ogni momento a misurare l’abisso che lo separa da quello. Il confronto gli provoca un’invidia corrosiva e insuperabile.
L’esistenza del primo gli ricorda senza tregua che cosa anch’egli avrebbe potuto essere, rispetto alla pochezza sconfinata che, invece, ha scelto di vivere (e di pensare).
Il secondo, perciò, di solito dedica gran parte del suo tempo a un lavoro certosino nella vana speranza di demolire il prestigio del primo. Un lavoro organizzato e coordinato. In molti modi.

Uno è costituito dai premi, in particolare quelli letterari. Le giurie sono infarcite di "in"intellettuali che premiano i propri simili (anche qui ci sono eccezioni, è ovvio).

La catena è ferrea: io ti do il riconoscimento qui, d’accordo con lui che ne parlerà con grandi articoli lì, poi, domani, sia chiaro, tu mi renderai il favore in quell’altra circostanza "prestigiosa", con quell’altro pronto a fare (a me e a te) lodi a sette colonne. E così via. In un valzer di autolegittimazione senza fine.

Un altro modo è quello che trionfa nei salotti, di cui quelli della capitale sono i più mefitici e inde-fessi. Gli "in"intellettuali – di ogni disciplina, arte e mestiere – si ritrovano a intervalli frequenti a casa di uno o dell’altro e, fra i pettegolezzi, stringono alleanze, decidono cooptazioni, mercanteggiano lo scambio di favori.

Siccome ognuno è avvitato in una qualche nicchia del potere, principalmente fra i media, si garantiscono sostegno vicendevole (un articolo a favore in cambio di un’apparizione televisiva e viceversa; la partecipazione a un dibattito "prestigioso", in presenza di un leader politico, in cambio di una consulenza ben retribuita e viceversa). E’ nei salotti, soprattutto, che gli "in"intellettuali si sfregano con il potere, come i pesci quando risalgono la corrente del fiume per deporre le uova. Nei salotti, gli "in"intellettuali diventano organici a se stessi.

L’"intellettuale" sta altrove. Non ha tempo da perdere. In compagnia dell’inquietudine, bada a "leggere dentro" le cose, coglie e attinge per quanto può. E, quando ritiene di avere afferrato una verità, la esprime, senza temere le conseguenze che possano derivargliene.

Non si occupa degli "in"intellettuali, se non del tutto eccezionalmente e come per gioco, quando si concede il piacere di annichilirne qualcuno con una battuta perspicua o con un lazzo fulminante. Non diversamente dal gigante, che si sbarazzi dell’avversario muovendo il solo dito mignolo o con un’occhiataccia.

L’intellettuale sa bene di non essere infallibile e che l’errore può punirlo. Per questo è rigoroso. Se sbaglia, è pronto a pagare. Ma, subito, si rialza.

Se c’è da scrivere – e da agire – contro colui che può anche esiliarlo, non tace come Macrobio, ma scrive, parla e agisce. A viso aperto.

L’ingiustizia e la forza iniqua del potere non lo intimoriscono affatto. Egli le sfida, e invita a sfidarle, per crearne il superamento. L’intellettuale è, per definizione, alternativo.
Il potere, che molte volte è stupido, può anche arrivare a incarcerarlo. E’ la scelta più miope. Una volta imprigionato, la sua statura cresce e, da dietro le sbarre, giganteggia agli occhi dei cittadini onesti.
Non ha, in ogni caso, alcun timore dell’isolamento che le sue idee e le sue lotte possono provocargli. Sa da sempre che la sua capacità di vedere lontano gli procurerà più riconoscimenti postumi che contemporanei.

In breve: egli combatte in base a ciò che vede tramite il "leggere attraverso" e "dentro", e continua a farlo, a prescindere dai rischi che è obbligato ad affrontare, gli ostacoli che deve superare, i pericoli che non sempre può evitare.