Un primo maggio all’incontrario

Adriano Olivetti    In questo mondo impazzito dove la politica ci regala incubi inimmaginabili, con partiti di (pseudo)sinistra che sponsorizzano governi di destra, con gli ex-compagni che difendono gli interessi di banchieri e speculatori. Orbene in mezzo a tutti questi incubi vorrei avere almeno dei mezzi sogni. Ma non è prudente divergere troppo dalla situazione reale di tutti i giorni, rischi di non essere capito nel mondo del politically-correct,  allora in questo mondo al contrario voglio festeggiare il primo maggio parlando di grandi Imprenditori.  Ma siccome non sono impazzito del tutto, ed ho un certo senso del limite all’orrido, ho scelto un Imprenditore con la I maiuscola ben lontano dagli stereotipi “marchionniani” elogiati da La Repubblica o Il Sole 24 Ore ogni nuovo governo Bilderberg approved.

<<Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?

Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea,come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l’opera della nostra Società.

Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.

La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.

La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.

Questo stabilimento riassume le attività e il fervore che animano la fabbrica di Ivrea. Abbiamo voluto ricordare nel suo rigore razionalísta, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei suoi servizi culturali ed assistenziali, l’assoluta indissolubile unità che la lega ad essa e ad una tecnica che noi vogliamo al servizio dell’uomo onde questi, lungi dall’esserne schiavo, ne sia accompagnato verso mete più alte, mete che nessuno oserà prefissare perché sono destinate dalla Provvidenza di Dio.

Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata,la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza.

La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile. Talché oggi questa fabbrica ha anche un altro valore esemplare per il futuro del nostro lavoro nel Nord e ci spinge a nuove realizzazioni per creare nuovi ambienti che traggano da questa esperienza insegnamento per più felici soluzioni.

Ora che la fabbrica è compiuta a noi dirigenti spetta quasi tutta la responsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie,pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe infine della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di elevamento sociale: voglio alludere all’ammirevole città di Pozzuoli e ai suoi incomparabili dintorni.>>  Adriano Olivetti Pozzuoli, 23 aprile 1955 Discorso ai lavoratori del nuovo stabilimento

Perché se è vero che non ci sono più i Berlinguer e i Pertini è pure vero che in questo paese non ci sono più neppure gli Adriano Olivetti e le Luisa Spagnoli …e neppure gli Enrico Mattei, e il concetto di una  fabbrica che guardi oltre gli utili, guardi anche al benessere del proprio capitale principe: la risorsa umana, è stato ben isolato e chiuso nelle casseforti di piombo del neoliberismo con tutte le precauzioni affinché si eviti il rischio di contaminare in una qualche fuga qualche ignaro e indifeso imprenditore.

BUON PRIMO MAGGIO

ai lavoratori

ai precari

ai disoccupati

ai pensionati

ai (pochi) sindacalisti che fanno il loro mestiere

agli autonomi

alle partite iva

ai padroncini

….e anche agli “Adriano Olivetti” se ne fosse rimasto qualcuno.